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Liber-azione. Mio nonno, io e la seconda guerra mondiale

In una società che corre alla velocità della luce e che ha abbandonato l’approccio diacronico in favore di una sincronia spinta abbondantemente fuorigiri, risulta difficile avere una memoria che contempli quello che è successo solo qualche istante prima. Viviamo connessi (e forse immersi) in una specie di RAM, memoria volatile che viene continuamente violentata da un flusso continuo di dati in ingresso e in uscita, corrente continua che dopo il suo passaggio lascia poco e nulla nelle nostre sinapsi.

Se è difficile avere una memoria a corto raggio, è facilmente immaginabile cosa significhi conservare ricordi e fotogrammi di cose che apparentemente sembrano lontane da noi, ma che in realtà ci sono vicinissime sia dal punto di vista strettamente cronologico che sociale. Un evento ha diverse maniere per esercitare una qualunque influenza su di noi: può farlo in maniera diretta ma anche indiretta, attraverso l’azione e/o il condizionamento che magari ha esercitato sui nostri genitori o sui nostri nonni.

Oggi parliamo appunto del secondo caso, visto che è il 25 aprile 2015, giornata nella quale ricorrono i 70 anni dalla Liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Per molti oggi è un semplice festivo da dedicare al mare, alle scampagnate con tanto di barbecue o alle gite, ma per tanti altri è una giornata nella quale riflettere su personaggi, storie e ideologie, e sul valore residuale che hanno nella società moderna. Alcuni giorni fa per Martina News ho intervistato Alessandro Massafra dell’ANPI di Martina Franca (articolo QUI) e mi trovo d’accordo con lui quando dice che l’antifascismo non sarà mai fuori moda o antico, perché antifascismo significa lottare contro la prevaricazione e l’abuso, a prescindere che sia di natura politica, ambientale, morale, etc…

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Il ceppo per i 70 anni della Liberazione dell’Italia inaugurato oggi a Martina Franca.

Ogni anno, anche solo per poco, in questa giornata mi ritrovo a pensare a cosa significhi avere contezza di quello che hanno vissuto i nostri genitori e i nostri nonni, eventi che hanno inciso sul loro vissuto nelle maniere più varie. Sin da piccolo mi sono interessato di storia contemporanea: il mio primo libro storico lo comperai ad un mercatino dell’usato in un’estate di una ventina di anni fa. Era un manuale con alcuni estratti dei discorsi di Benito Mussolini pronunciati durante l’infausto Ventennio. Ricordo ancora la faccia della signora che me lo vendette, sorpresa del fatto che a 10-11 anni si potessero leggere robe simili. Da lì mi sono appassionato alle vicende della Seconda Guerra Mondiale prima, e della Guerra Fredda poi. I libri si sono accumulati, gli anni sono passati, mi sono laureato con una tesi sul revisionismo storico, ma una consapevolezza è rimasta: non si possono dimenticare i fatti che scaturirono dalla scellerata decisione presa il 10 giugno 1940, delirio nero che portò una nazione intera e il suo popolo allo sfascio, alla guerra civile, ai morti e ai mutilati. Come dimenticare la disfatta dell’ARMIR in Russia, le campagne in Africa o nei Balcani, le leggi fascistissime del 1938, l’OVRA, la repressione ad ogni livello, la Resistenza, la Repubblica Sociale Italiana e l’8 settembre 1943?
Per me è impossibile, perché sono fatti che hanno coinvolto le nostre famiglie. Ognuno di noi ha almeno un parente che ha combattuto in uno dei vari teatri di guerra, sia da una parte che dall’altra. Tanti sono morti e non hanno ricevuto una degna sepoltura; tanti sono tornati a casa, profondamente provati dalle fatiche della guerra, della clandestinità o della deportazione nei campi sparsi per l’Europa.

Nel titolo menzionavo mio nonno, e non lo facevo a caso. Carlo Carbotti, matricola 26936, nel 1943 era un ventenne come tanti di quel periodo: fame e miseria erano ovunque, e costringevano talvolta a scelte difficili, come quella di entrare nell’Esercito. Vitto, alloggio e una paga (misera) all’epoca costituivano un’attrattiva importante (ampiamente foraggiata dalla propaganda di regime), seppure all’atto pratico i rischi fossero notevoli, specie in un teatro – quello italiano – che quell’anno avrebbe visto l’inizio della fine. Mio nonno – assieme ad altri due fratelli – ha partecipato a diverse campagne, ma quella che lo segnò particolarmente porta un intervallo temporale ben preciso: marzo-settembre 1943. In quel periodo fu trasferito da Udine in Croazia, a combattere contro le truppe di Tito in quella che pareva ormai una guerra ampiamente segnata: troppo scarso l’equipaggiamento delle truppe, poco il coordinamento e bassissimo il morale, nonostante gli uomini si facessero valere sempre e comunque.

Un giorno mio nonno, durante una perlustrazione in una zona calda, fu catturato dai titini e rinchiuso in un campo, assieme ai suoi compagni. Tra di loro un conterraneo, col quale mio nonno legò subito in maniera particolare, complice anche la vita da prigioniero di guerra. Fame, torture e scarsissima igiene in queste situazioni facevano tante vittime tra ragazzi che avevano avuto l’unica colpa di aver creduto ai fasti che il regime prometteva. I fascisti convinti c’erano ma erano concentrati maggiormente tra gli ufficiali, mentre le truppe erano carne da macello da mandare in prima linea, nella convinzione che qualche centinaio di loro sarebbe bastato per sedersi al tavolo dei vincitori, così come lo stesso Mussolini credeva nella primavera-estate 1940.

La storia però andò in maniera diversa e tanti di quei ragazzi lo provarono sulla propria pelle, a prescindere che fossero soldati, partigiani o civili. Le settimane in quel campo passavano lentissime, mentre mio nonno si convinceva sempre di più che fosse necessaria la fuga, nonostante il suo amico avesse paura di essere scoperto e fucilato. “Io non resto qui, tanto moriremo comunque… Vieni con me, proviamo a scappare!”, ripeteva mio nonno, riuscendo alla fine nella sua opera di convincimento. E una sera fuggirono, sfruttando l’oscurità e un attimo di distrazione delle guardie. In quel momento li attendeva un assurdo viaggio a piedi: 1200 km da percorrere attraversando diversi scenari di guerra, con un Italia che proprio in quel momento viveva il periodo più basso e triste di tutto il conflitto. Camminarono per settimane, dormendo di giorno e consumando di notte le suole dei pessimi anfibi che avevano in dotazione. Niente cibo, solo bucce di patate, tuberi e quant’altro trovavano per i campi e le strade. In quel momento non erano né fascisti (perché passando per Trieste si rifiutarono di rientrare nei ranghi) né tanto meno partigiani, erano soltanto giovani sbandati in fuga per la libertà. Tutto questo mentre in Italia donne e uomini combattevano (e morivano) contro le forze nazifasciste per restituire libertà e dignità ad una terra violentata dal fanatismo e dal piombo. Dopo diverse settimane mio nonno e il suo amico riuscirono a tornare in Puglia, deperiti ma felici di essere liberi.

Mio nonno, persona di pochissime parole come il sottoscritto, non solo non mi ha mai parlato di questi fatti ma in seguito ha anche votato da tutt’altra parte. Troppo forte la ferita, nonostante fossero passati tanti anni? Non lo so, so solo che quello che conosco deriva dai racconti che mia nonna ha fatto a mio padre. Non ci fossero stati i documenti e i ricordi, questa sarebbe stata una storia sepolta. La storia di mio nonno e di un compagno di sventura, finiti in un campo in Croazia con una sola, grande colpa: aver creduto che quella divisa avrebbe dato loro il pane.

Per questo non ho problemi a ritenermi antifascista, a ripeterlo ancora oggi e ogni volta che servirà.

  • Sono antifascista perché rifuggo dall’ideologia della sopraffazione, della manipolazione, della propaganda.
  • Sono antifascista perché non voglio che i miei figli possano rivivere quello che hanno vissuto i nostri nonni.
  • Sono antifascista perché ricordo chi siamo e da dove veniamo.